I febbroni di marzo

La scorsa settimana ho preso l'influenza.


Domenica notte non ho praticamente chiuso occhio, tra puntate al bagno per vomitare o fare altro, una sensazione di malessere totale e anche l'indispensabile apporto di qualche vicino che alle 2 di notte ha pensato bene di inciampare e ruzzolare (credo) giù dalle scale per schiantarsi contro la mia porta -- facendomi saltare il cuore in gola. Letteralmente.
Il lunedì mattina, non so grazie a quale aiuto certamente soprannaturale, sono riuscita a trascinarmi fuori dal letto per poi trascinarmi ulteriormente al lavoro per fare una cosa che non potevo rimandare e recuperare il computer, dopo di che sono tornata a casa il più rapidamente possibile e mi sono rimessa a letto.
Morale della favola, avevo 38.5. Che magari qualcuno non riterrà una temperatura altissima, ma avendo io una temperatura normale di circa 35 (sì, sono un essere a sangue freddo), e considerato che già 37.5 mi mette KO, per me era un febbrone da cavallo.
Erano vari anni che non mi succedeva di sentire la temperatura che si alza, di non riuscire a scaldarmi in nessun modo e di rabbrividire con ogni cellula; a questo aggiungiamo anche dolori ai muscoli delle gambe e alle articolazioni, quelli che la mia tata chiamava "dolori della crescita" quando ancora stavo crescendo.

Non riuscendo nemmeno a pensare, ho praticamente dormito per tutto il giorno e tutta la notte successiva, svegliandomi solo per prendere la Tachipirina ogni 8 ore. La cura del sonno ha funzionato perché già martedì mi sono avventurata in cucina, e ho persino lavorato un po' da casa.

Però il fatto di essere ammalata in se stessa mi ha dato da riflettere.
La cosa che mi colpisce quando mi capita di stare male a Milano è la sensazione di solitudine. Da un lato va bene perché non sono molto socievole quando sto male, e anche le telefonate sollecite dei familiari, pur facendomi piacere, contemporaneamente mi infastidiscono quasi. Da un altro lato, però, mi sento sola e abbandonata, e ogni volta mi viene da pensare che in fondo è questo l'essere adulti. Una sensazione di solitudine. Quando ero piccola mi ammalavo raramente e per dirla tutta avrei voluto ammalarmi più spesso per saltare qualche giorno di scuola, ma puntualmente succedeva quando c'era qualche vacanza. Credo sia un destino comune. Comunque, le rare volte in cui mi ammalavo, tutti mi coccolavano. Mi insediavo nel letto della mamma, avevo la tata che mi faceva mangiare, guardavo la televisione, leggevo anche se mi bruciavano gli occhi, e il pediatra veniva a casa a visitarmi.
La malattia da adulti non ha nessuno di questi lati positivi. Nessuno si occupa di te, il dottore nel migliore dei casi ti visita telefonicamente, se vuoi mangiare devi procacciartelo da sola, e in più sai che quando, sopravvissuta e scampata per miracolo alla temibilissima influenza 2015, tornerai al lavoro, troverai una montagna di roba da fare.

Beh, vedendo il lato positivo, almeno ho dormito.

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